Questo memoir fu scritto sotto richiesta del mio fratello spirituale Ganga das il quale voleva raccogliere le memorie delle persone che lo conobbero all'inizio della sua avventura fisica in India e spirituale sulla via della Bhakti. Credo che coloro che hanno dei ricordi di quegli anni in coscienza di Krishna ritrovino tanto del loro vissuto.
MEMOIR -
1978-1979 - Mayapur
Avevo acquisito una certa esperienza e
confidenza nel viaggiare anche nei posti piu' remoti ed isolati in oriente. Non
avevo paura di niente, dopo il lungo viaggio che mi aveva portato in India dalle
coste della Puglia, alla Grecia, in Turchia,
poi in Iran subito prima della rivoluzione di Khomeini, attraverso
l'Afghanistan, sotto il coprifuoco russo, via le poche e veloci tappe nel
Pakistan, un fotogramma fermo al '47 con gli avvoltoi per le strade a testimonianza di
indicibili massacri, e quell'ultimo memorabile tratto di 3 chilometri di una
strada alberata, soleggiata, famigliarmente settembrina che avevo percorso
volutamente a piedi con una borsa sulle spalle per entrare in India, la terra
mistica, in qualche modo mia e dei miei sogni, dove cio' che ci separa da altre
dimensioni e dal nostro reale se'sembra essere meno spessa, come l'avevo avvertito sotto il cielo percepibilmente piu' vicino sull'Himalaya,
quasi fosse appesantito dalle fitte stelle,
dove infatti toccare la volta
sembrava possibile allungando una mano; e poi lo avevo vissuto ogni giorno, dopo
essere giunta a Vrindavana, dove avevo
trascorso quell'ultimo anno.
Arrivai a Calcutta per la prima volta
nell'autunno del 1979 dopo aver percorso mille miglia da Delhi in un vagone di
quarta classe, dove avevo dormito su sacchi di patate, sotto gli occhi curiosi
e sorpresi di una variegata umanita' che era salita e scesa alle innumerevoli
stazioni affollatissime e sconosciute di cittadine in costante disfacimento, in
cui versano costantemente gli edifici di
questo subcontinente, ed i tantissimi piccoli villaggi che trapuntano le vaste
distese delle pianure del Gange; rumorosa, variopinta, vestita per lo piu' di
stracci, sudata, fortemente odorante di terra, con sacchi, borse, galline,
capretti, bambini piagnucolosi dal naso perennemente mucoso, con le mosche
attaccate alla faccia e con gli occhi ingranditi dalle spesse linee di kajjhal e i punti neri sulle guance
contro il malocchio, tutti immancabilmente incrostati di polvere.
Era durato 44 ore quel viaggio dietro
le barre di un treno senza vetri, cosi' come era l'India, senza schermature,
dove la vita non nasconde la morte, ma ne e' parte, per cui la senti cruda,
ruvida come e' un po' tutto in questa terra e stranamente come piaceva a me, al
mio spirito avventuriero, come me l'ero sentita addosso cosi' austera, dalla
quotidianita' ridotta allo stretto bisogno, dove ci si vestiva con pochi metri
di stoffa, si pompava l'acqua in un secchio per lavarsi, dove un pettine, uno specchietto,
uno shampoo potevano essere quasi un lusso; si beveva da bicchierini di
terracotta, che si ributtavano alla terra, un acqua dal leggero sapore salino,
mai fresca ne' dissetante; si mangiava con le mani, su piatti di foglie, seduti
senza sedie, sulle gambe o a gambe
incrociate, del cibo cosi' speziato, che penetrava ogni angolo della bocca,
bruciante e pungente, che galvanizzava ogni papilla gustativa con passaggi
dal troppo acre, all'amaro al troppo dolce.
Giunsi al tempio a Calcutta ed un
italiano mi accolse, anche lui avvolto nel tipico pezzo di stoffa che lasciava
trapelare lavaggi frettolosi e con acqua sempre un po' terrosa, con quel fare
etereo che ci caratterizzava un po' tutti (gli Hare Krishna in India), in
quanto il vissuto nel proprio paese, il passato di cui quasi mai si parlava
socialmente, sembrava appunto essersi fuso in quel presente dove la vita che si
faceva non celava sorprese da quando ci alzavamo la mattina, alla doccia
fredda, ai canti, ai mantra, al japa,
fino all'alba di ogni giorno, stessi orari, stesse ridottissime amenita' e quel
modo di esprimersi incomprensibile per il resto del mondo che non aveva
retaggi, perche' una tale mescolanza internazionale in quella antica tradizione
non era mai esistita prima.
Avevo bisogno di avere delle
indicazioni piu' precise per arrivare a Mayapur, che era in qualche punto sulla
mappa sulle rive del Gange,
nell'entroterra del Bengala.
Sattvic das mi aiuto' a tornare alla
stazione e mi mise su un treno per Krishna Nagar lasciandomi con queste parole
: "A Mayapur non c'e' niente, si vive solo di acqua e del canto Hare
Krishna". Fu una rivelazione che mi accattivo' lungo tutto il viaggio in
treno attraverso folte chiome di banane, distese di noci di cocco, innumerevoli
alberi di dattero con appesa la tipica giara di terracotta1, il
cielo sempre terso, laghetti ovunque, quasi uno per ogni capannucola; poi
pianure verdi di coltivazioni di riso,
un paesaggio festoso e lussureggiante, cosi' diverso da quello intorno a
Vrindavana sempre lambita dalla sua sacra polvere. Notai che anche i dischi di sterco di mucca
attaccati ai muri ad essiccare, avevano decisamente una forma diversa dal disco
rotondo tipico dell'Uttar Pradesh, le avevo infatti viste cambiare in ogni
stato che avevo attraversato con il treno da Delhi.
Mi ritrovai sulla riva del Gange che
era oramai sera. I barcaioli mi guardarono con indifferenza, non avevo bisogno
di dire dove fossi diretta, ma dal mio sacchetto, il sari di 3 giorni di treno,
non erano interessati ad accapigliarsi per traghettarmi sull'altra
sponda a Mayapur per il costo indigeno di 15 paisa. Uno di loro pero' si
offri' e silenziosamente, avvolti dal velluto notturno con le sole asole
bianche della schiuma provocata dal battere del remo sulla superficie
dell'acqua scura, scivolammo verso Mayapur.
Vrindavana sembrava sfarzosa in
confronto a Mayapur, con i suoi viottoli tra i mandapa di antichi splendori, le cupole degli approdi sullo Yamuna,
le scalinate, i templi monumentali e i mille tempietti pieni di fiori e di
incensi, misti all'odore del ghee bruciante delle lampade votive, nonche' i
mercatini coloratissimi di stoffe e verdure, i riksho' a pedali e Radhe Radhe
nell'aria e sui tronchi degli alberi. L'ultimo tratto dal Gange al Caitanya Chandrodaya Mandir lo feci su un riksho'. Avevo notato gia' a
Calcutta che da questa parte dell'India molti riksho' erano ancora tirati a
mano, a piedi nudi sull'asfalto rovente per gli spietati 40 e passa gradi,
guardandoli si poteva intuire quanto fosse fine la membrana di illusione che porta
a credere di non essere gia' agli inferi.
Si', Mayapur era incastonata in risaie verdi che
finivano nella distesa di acqua del Gange,
tra avvalli acquiferi, la terra acquosa, i campi acquitrinosi, l'aria
acquea, per la densa umidita', e l'acquerello degli orizzonti.
Mi fu assegnata una stanza nell'ashram
delle donne, una palazzina di tre piani, con un cortile interno dove i piani vi
si aggettavano in pianerottoli su cui
davano le porte delle stanze ed una delle due finestre di ogni camera, l'altra
dava sui sconfinati orizzonti di verde ed aria sulla parete esterna.
Le finestre della stanza non avevano
vetri ma le solite barre, come quelle dei treni - a Vrindavana oltre ad avere
la completa finestra avevamo anche la zanzariera : lusso! - era dunque
parte del "non c'e' niente" profetizzato da Sattvic Prabhu. Lo
stuoino per dormire - c'era, il cuscino rigorosamente mancante, non c'era
neanche lo scrittoio basso tipico delle aule della gurukula di cui era dotato l'ashram di Vrindavana.
Ricevetti la lota2 per il bagno, il dentifricio, lo spazzolino, una gamcha3 per la doccia,
naturalmente niente specchietto, pezzo di tilak, che oramai ero esperta a
mettermi in fronte senza vedere, ma il bagno era fuori dalla palazzina, in una
struttura circolare divisa in abitacoli per la doccia e per i servizi
igienici.
Eppure non era solo la caratteristica spartana
dell'alloggio ad alzare l'asticella delle austerita' tra il tempio di Mayapur e
quello di Vrindavana, ma il cortile sottostante le stanze che era parte della
grande cucina dove venivano tagliate tutte le verdure da una folla di
donnine, per cui tutto il giorno
dall'alba fino a sera ciarlavano ad altissimo volume. Le voci bengali gia' godono di un acuto tono in
piu' incuneato in quello spazio racchiuso era un continuo rumoroso chiasso, un
vociare senza bassi, punteggiato da strilli dei bambini, frastuoni metallici
dei pentoloni lasciati cadere a terra, dallo sferragliare dei mestoli, dai
comandi gridati da una parte all'altra, tutto in un etere fumoso, che si levava
dai fuochi sotto le immense pentole annerite, ed annerente, che saliva su ed
aleggiava sempre nelle stanze.
Compilai il mio piano giornaliero come
era tipico della vita nell'ashram. Dalle
9 alle 9 di sera sarei stata in cucina con Didima l'anziana cuoca "senza-pari"
di Sri Sri Radha Madhava, con una interruzione tra l'una e le 3 e mezza. In quelle 3 ore avrei dovuto lavare i
panni, lavare la stanza, riposare e
leggere oltre a coprire la strada che divideva l'ashram dal tempio.
A Mayapur in confronto a Vrindavana,
per recarsi dal tempio, agli ashrams, agli uffici, alla sala per il prasadam, o
ai magazzini ecc c'era sempre una certa distanza da coprire a piedi, anche se
tutto si trovava all'interno del complesso del Caitanya Chandrodaya Mandir. Una volta decisi di farlo in bicicletta e si
alzo' il coro dapprima esterrefatto poi adirato e riprovevole degli astanti, poiche' per un precetto non esattamente
esplicito, ma collocato pregiudizialmente nell'inviolabile
"vedico", le donne non potevano andare in bicicletta; eppure le
gloriose donne del Mahabharata
andavano a cavallo o guidavano carri...ma qui ci trovavamo in un villaggio del
West Bengala con il cuore nel tardo 14simo secolo e il corpo nel post-islamico.
Devo per forza di cose aprire una
parentesi prima di tornare al mio racconto di Mayapur. Io avevo 19 anni quindi senza esperienza
delle genti del mondo, dei costumi e delle tradizioni culinarie. Dal momento che misi piede dentro l'ashrama
del Krishna Balaram Mandir di
Vrindavana, non ci volle molto per scoprire che "italiano" significava
"cuoco" per il mondo! Cosi' mi ritrovai in cucina, ma come da vangelo
secondo Bhakta Program, si inizia dal lavare pentole, piatti e cucina.
Non avevo pero' ancora veramente
esperienza, non avevo avuto tempo cosi' giovane ed appena uscita dal liceo, ma essendo
gia' vegetariana da un anno mi ero un po' industriata con qualche ricetta dagli
opuscoli per vegetariani/macrobiotici di Stampa
Alternativa, certo molto meno condivisi tra gli "altoparlanti"
della controinformazione di quelli sulla coltivazione della Marjuana fai-da-te.
Quindi diventare vegetariani era un veleggiare in solitario.
Avevo un altro vantaggio pero', che ero stata cresciuta dalla mia nonna che
era una gran cuoca di estrazione contadina, quindi tegamate di verdure ad ogni
pasto, infatti dovetti solo ricordare
per iniziare a cucinare, perche' la nonna aveva l'abitudine di descrivere i
suoi piatti mentre lavorava in cucina e non e' forse che ascoltando ascoltando
si impara?
Poi un giorno stavo cantando il mio japa intorno al tempio in Vrindavana, in
una di quelle albe dall'aria gia' calda, dopo notti dal buio afoso, sulle note
calde dello shenai e il raga del mattino che risuonavano dal tempio per tutta Raman Reti, tra le stradine e gli anfratti di sabbia, infatti non avevo
piu' messo le scarpe da quando ero giunta li'. Passai nella parte posteriore del tempio dove gli odori della cucina delle divinita'
erano una nuvola di aroma intenso di incenso misto a quello delle spezie che
frigolavano nel ghee. Questa miscela di odori di spezie, incensi, ghee bruciato,
latte bollito e canfora era diventata famigliare, piacevolmente esotica e
intrigatamente esoterica.
Incontrai Bhavananda (allora guru) che
mi chiese cosa stessi facendo, come mai non fossi in cucina.
La cucina delle divinita' in
Vrindavana aveva, credo, uno dei piu' bravi cuochi per gli altari : Vibhu
Caitanya Prabhu. Non avevo capito granche' di filosofia quando ero arrivata al
tempio il giorno del primo anniversario della scomparsa di Srila Prabhupada -27
ottobre 1978- , parlavo solo italiano e il solito inglese scolastico degli anni
'70, ovvero quello imparato dagli spartiti dei Genesis, di Crosby Still
Nash&Young o dei Pink Floyd, ma avevo capito benissimo il messaggio del
riso al latte e dell'halva maha-prasada
cucinati da Vibhu Caitanya Prabhu, per cui avevo chiesto di entrare nell'ashram
e intraprendere la rivoluzione spirituale degli Hare Krishna.
Pero' quella non era una cucina con
accesso per le donne, erano tutti brahmachari,
inoltre non avevo la seconda iniziazione per cui non potevo accedere all'area
pujari compresa la cucina. Ma - dopo
quell'incontro con Bhavananda prabhu - fu cosi' che mi ritrovai il mercoledi'
seguente brahman ed allo stesso
repentino modo mi ritrovai a Mayapur nei mesi seguenti.
A Mayapur ricominciai dal lavare le
pentole, poi gradualmente iniziai a capire i nomi delle spezie, dei piatti,
l'ordine di cottura, il taglio delle verdure secondo preparazione, le quantita'
per miscelare le spezie (rigorosamente indicata con le falangi delle dita).
Ogni giorno a fine offerta di
mezzogiorno e finito di lavare la cucina, quindi verso le 2 del pomeriggio,
Didima mi preparava un piatto di foglia di banana con un cucchiaio da ogni
pietanza che era stata offerta e mi faceva ripetere il nome e le spezie di ogni
preparazione. Quello era il mio pasto
principale. Non c'era niente a Mayapur
che si potesse definire commestibile, tanto era piccante, solo la domenica
quando la cucina centrale preparava qualcosa di piu' speciale per gli ospiti,
come il chutney di pomodoro e la melanzana alla curcuma sfrittellata, allora
sia io che Vrindavani Biharini correvamo
dalla cucina delle divinita' alla sala per il prasadam e ci mangiavamo una
quantita' enorme di riso grosso tipico della zona, mischiato con chutney di pomodoro e le
melanzane. Estasi.
Vrindavani Biharini prabhu era una
cuoca eccezionale e da lei imparai l'arte di essere cuoco che e' piu' completo
del soltanto imparare a cucinare.
Lei veniva in cucina e dalla mattina
iniziava a cucinare dolci per le Divinita', conosceva tutti i dolci bengalesi,
tra cui raffinatezze quali come candire tutti i tipi di frutta tropicale.
In quella cucina cosi' spartana, con una sola
porta senza alcuna finestra, dove
cucinavamo a terra, senza ripiani, i coltelli erano falcette a mezzaluna [ved. foto], con
due fornelli a gas e due con pompetta a kerosene, senza un lavello, ma soltanto
un rubinetto accanto alla porta a 40 cm da terra : e' qui che si faceva la
gavetta a lavar pentole tutto il giorno accovacciati sulle gambe, fracidi di
acqua e di sudore.
In quella cucina una pentola di teflon
era ancora fantascienza oppure una spatula puli-pentola o una teglia per dolci,
o le tazze per misurare gli ingredienti, infatti erano tutto giunto li' solo grazie a qualche anima che durante
il festival di Gaur Purnima li aveva portati in dono grazie agli effetti
collaterali dei dolci di Vrindavani Biharini e noi li avevamo riposti come
tesori in una piccola credenza a parte con un bel lucchettone anti-mani indigene.
Vrindavani Biharini e' passata alla
storia di Mayapur per la sua ineguagliabile creativita' in pasticceria
occidentale, li' in quel villaggio che era Mayapur, senza strade, un
agglomerato di capanne di sterco con i tetti di fascine di riso, dove un piatto
di kitchri4era gia' un lusso, e letteralmente fuori dal mondo, lei
sfornava torte, crostate, crostate salate, muffins, biscotti, tartine, niente
da invidiare alle prelibatezze di alta pasticceria. Io ancora mi chiedo come riuscisse a creare
quell'eden di delizie con quei pochi ingredienti e gli utensili cosi'
inadeguati. Il forno, ad esempio, era
una scatola di metallo con un buco sul fondo che veniva messa sul fornello, senza
poterne regolare il calore e con le pareti che non lo trattenevano in modo
equo, eppure lei ogni giorno rendeva possibile un'offerta di dolci sempre
speciali per Sri Sri Radha Madhava.
Lei mi prese subito sotto la sua ala
da grande onorevole consorella, aveva cucinato per Srila Prabhupada, era in
coscienza di Krishna da 10 anni (all'epoca con 10 anni si era gia' super-senior)
era stata tra le prime nove coppie di grhasta
scelti da Srila Prabhupada per venire in India, parlava bengali, era precisa, direi professionale, dal sadhana perfetto, instancabile,
meticolosa, dolce e con un gran cuore paziente e tollerante delle spartane
condizioni in cui si viveva in India.
Mayapur era cosi' povera che avvolte la mattina andavamo al magazzino
per rifornire la cucina e tutto veniva dato soppesato al grammo soprattutto il
ghee e quando non c'era il ghee, ci davano dell'olio anche quello pesato alla
goccia. Eppure le torte e tutte le altre
delizie uscivano comunque puntuali dal forno di Vrindavani Biharini, io ne ero
incantata.
La cucina era al primo piano
dell'unica palazzina a 3 piani che e' ancor oggi il Lotus Building. Poi c'era solo l'edificio lungo del Chakra.
Quindi la porta della cucina dava
sulla veranda che corre su tutti i lati del Lotus
Building. Verso le due del pomeriggio
solitamente dopo aver lavato la cucina sedevo fuori a prendere del prasadam o
solo a riposare prima di tornare in ashram.
Gli unici a passare di li' erano i
soliti trafelati pujari, i brahmachari nell'ora d'aria, nel loro arancione dal piu'-intenso-il-colore-piu'-disturbata-la-mente e i sannyasi quando
venivano a prendere prasadam. Nel
pomeriggio quando la cucina riapriva preparavamo il sandesh, finivamo i dolci
di Vrindavani Biharini e cucinavamo del kitchri
per Sattadanya Maharaja e Jayapataka Swami.
Un giorno come di routine avevo appena finito di pulire la
cucina e mi ero preparata il piatto di foglia di banana con un po' di prasadam,
stavo per sedermi quando apparve... si' perche' era cosi' le persone sembravano
apparire come dal nulla, poiche' intorno c'erano solo interminabili campi di
riso, quella terra sempre fradicia di Gange, gli orizzonti interrotti solo dalle
guglie qui e la' dei pochi templi, che uscivano dall'immobile incantesimo di
quel paesaggio che solo al tramonto, allo scampanellare insistente del sandhya arti misto al ritmato
accompagnamento dei kartalas e al
sordo sottofondo del tamburellare dei mrdangas, sembrava risvegliarsi.
E' cosi' che mi ritrovai davanti Gino.
I volti del proprio paese di origine si distinguono sempre in qualsiasi parte
del mondo, per cui immediatamente simultaneamente capimmo di essere italiani,
basto' la pronuncia del "Hare Krishna" quando doverosi e rigorosi ci
salutammo.
Notai che aveva dei zeppi di legno
ficcati nell'orecchio sinistro, intorno e sul lobo e gli chiesi cosa gli fosse
successo. Mi disse di un gran mal di
denti e di qualche sciamano nepalese che gli aveva conficcato i legnetti come
una agopuntura. Ora stava bene.
Mi chiese di Mayapur e come si
stava. Io venivo da Vrindavana quindi
ero molto meno ferrata sulle meraviglie di Mayapur, dovuto ovviamente all'ancor
verde intenso del mio cuore di mango5, ma ripetei quello che sapevo
bene perche' aveva fatto un gran senso nel mio avvicinamento alla coscienza di
Krishna : Lord Caitanya Mahaprabhu era apparso li' e ci aveva portato il canto
dei Santi Nomi con il Mahamantra Hare Krishna.
Il desiderio che questo movimento si spandesse in tutto il mondo era di
Lord Caitanya e lui stesso lo aveva dimostrato li' a Mayapur danzando e
cantando. Ed era stata una rivoluzione
gia' all'epoca.
Avevo dei temi che mi piaceva molto sempre presentare,
perche' la predica del novizio e' sempre su cio' che si preferisce, non su
quello che potrebbe interessare l'ascoltatore : il susseguirsi delle ere e come
questo Kali Yuga fosse cosi' tremendamente speciale, come si ripeteva nei
giorni di Brahma, come seguiva la venuta di Krishna, come fosse una unica
possibilita' per uscire dal samsara e poi la reincarnazione.
Poi gli offrii il prasadam, il mio
pranzo, tutto quel che avevo, ma era come suggellare quanto gli avevo appena descritto
: il messaggio di Srila Prabhupada, ripetuto "as it is", con doverosa prasadam finale. Non c'era cosa che eravamo piu' convinti fin
dagli albori della nostra adesione agli Hare Krishna, che prasadam era l'inizio, il mezzo e il fine della
realizzazione del se'.
Bhakta Gino - mi sembro' evidente dopo
qualche giorno che fosse oramai entrato in ashrama - passava regolarmente per
la cucina, a prendere il latte o qualche morsello di maha prasadam e ci fermavamo
sempre a parlare della coscienza di Krishna. Un giorno pero' si trovo' a
passare davanti alla cucina Jananivas Prabhu e ci trovo' presi in un fitto
discorso di cui lui non capiva nulla in quanto parlavamo in italiano, e
sembrandogli un po' troppo intimo il modo di conversare -essendo io
Brahmacharini e Bhakta Gino in procinto di entrare il Brhmacharya - ci riprese
e fu cosi' che da allora quando ci incontravamo eravamo molto piu' fugaci nel
salutarci o nel scambiare qualche parola.
Nel 2013 ho visitato Mayapur dopo
molti anni e quando ho incontrato Jananivas Prabhu, oltre a tornare con i
ricordi a quando Mayapur era solo campi di riso, divertito si ricordo' di
questo aneddoto del mio chiacchierare con Ganga prabhu e dopo cosi' tanto
tempo mi ha spiegato quale fosse stata la sua apprensione. Ci vedeva gesticolare e parlare intensamente
- mi ha rifatto anche il suono dell'italiano come era pervenuto al suo orecchio
- e non sapendo di cosa stavamo parlando, nel dubbio ci rimprovero' di tutta
quella confidenza. Il suo racconto di
quella scena dopo cosi' tanti anni fu spassoso.
miche māyāra vaśe, yāccha bhese
6.....Come
le pagliuzze e i fili d'erba sono portati dal fiume ad unirsi e poi allontanate
dalle correnti, poiche' questa e' la condizione della natura materiale, cosi'
accade alle persone, per cui io tornai a
Vrindavana dopo qualche mese e Ganga prabhu parti' in Sankirtana. Poi tornai a Mayapur anni piu' tardi, ma
Ganga prabhu era stato trasferito a Chennai (Madras ai tempi) e seppi che si
era sposato.
Quando tornai in Italia decisa a
lasciare la vita dell'ashrama, Ganga Prabhu fu l'unico che mi telefono', sempre
entusiasta e lenitivo, con parole sempre dettate dal cuore, comprensivo e
sinceramente premuroso. Le amicizie vere
nate "ai tempi dell'ashrama", soprattutto in quell'India cosi'
corrosiva, densa, appiccicosa, afosa, austera ed estrema avevano sempre un
posto nel cuore.
Passarono ancora degli anni e mi
ricordo che tornavo da uno dei miei viaggi di lavoro, era estate. Accesi la segreteria - era prima
dell'avvento dei cellulari -e c'era questo messaggio :" Hare Krishna
Madhavalata, sono a Roma possiamo vederci? Io saro' anche al Ratha Yatra a
Viareggio. Ci vediamo?. Tuo Ganga."
NOTE
(1) Le giare di terracotta vengono
legate ai tronchi nel punto dove viene fatta una incisione per raccogliere il
succo del dattero che poi viene lavorato per ottenere la melassa solida di
dattero o dates gur, molto tipica
nella zona di Mayapur.
(2)
Lota in Hindi e' il nome che indica un recipiente
con manico, ma nel caso specifico del bagno e' come un bricchetto solitamente
di plastica che serve per farsi la doccia con l'acqua da un secchio.
(3)
Gamcha - tessuto lungo poco
piu' di un metro solitamente intessuto a mano e con colori naturali usato per
la doccia.
(4)
Kitchri - risotto di dahl
(lenticchie decorticate) e riso anche con verdure.
(5)
L'accostamento dei bhakti-yogi principianti ai manghi verdi fu fatto da
Srila Prabhupada come qui di seguito riportato : " Se è acerbo o maturo un mango è un mango". Prabhupada
intendeva che un devoto, anche se
soltanto all'inizio, ma costantemente impegnato nel programma e nel sadhana personale, è sulla via della
perfezione. (Citazione dal libro "From
Copper to Touchstone" by HH Satsvarupa Goswami
(4)" Queste pagliuzze e
fili di erba si uniscono nella corrente del fiume, ma quando le onde le
sospingono qua e la', vengono separate e trasportate da qualche altra parte.
Allo stesso modo, gli innumerevoli esseri viventi all'interno di questo mondo
materiale sono in cbalia delle onde della natura materiale. A volte le onde li
unisce, e formano amicizie e si rivolgono l'uno con l'altro su una base di identita' fisica legata
alla famiglia, alla comunità o alla
nazionalità. Alla fine vengono portati via da quell' associazione dalle onde
della natura materiale." SB 4.28.60
Purport
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